Il procedimento per il video di cyberbullismo del 2006. L'associazione: «Non vogliamo la censura»
MILANO - In Italia i precedenti processuali non fanno giurisprudenza. Eppure la sensazione è che quanto verrà fuori dal processo che vede imputati quattro dirigenti di Google per il cosiddetto “caso Vivi Down” stabilirà un forte punto di riferimento su quello che si potrà fare, e non si potrà fare, in Rete in Italia.
Il “caso” in questione risale al 2006 (qui l’articolo di Corriere.it) e riguarda un video caricato su Google Video – servizio di video sharing al pari di YouTube, sempre di proprietà di Mountain View – dove si vede un ragazzo affetto da Sindrome di Down sbeffeggiato e picchiato da alcuni compagni di classe. Un caso particolarmente odioso di cyberbullismo che ha fatto partire una denuncia dall’associazione milanese Vivi Down. Pochi giorni dopo era scattata una perquisizione nella sede di Google Italia (leggi) e due anni dopo, nel novembre del 2008, è arrivata la notifica: quattro dirigenti della multinazionale americana saranno processati per diffamazione e violazione delle tutele sulla privacy (qui l’articolo dettagliato).
La prima udienza sarà martedì prossimo, il 3 febbraio, e l’attesa è molta. E non solo da noi: del caso si sono occupate le principali testate giornalistiche di tutto il mondo, anche perché, come spiegano da Google Italia, «non ci sono casi simili in altri Paesi occidentali». Motivo per il quale Google Italia ha voluto incontrare alcuni giornalisti per poter spiegare la propria posizione in merito al caso, prima che la parola passi definitivamente alle sedi del tribunale di Milano.
Un manifesto di presentazione dell'associazione Vivi Down
Un manifesto di presentazione dell'associazione Vivi Down
L’avvocato Marco Pancini, responsabile dei Rapporti istituzionali per la sede italiana, ci tiene subito a specificare che in materia è stata fatta molta confusione, a causa anche della mancanza di una legislazione adeguata. «L’ottica adottata è quella che si riferisce ai vecchi mezzi di comunicazione», spiega Pancini. «Da cui l’idea, sbagliata, che il provider di servizi in Rete sia oggettivamente responsabile dei contenuti ospitati sulle proprie piattaforme». Nel caso di Google Video prima, e di YouTube ora, una responsabilità che secondo i referenti italiani della multinazionale non può minimamente essere presa in considerazione.
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